Cari governatori, tertium non datur. Forse
- 09 Marzo 2024
- 4 minuti di lettura
Non sono un tifoso dei limiti ai mandati elettivi. In passato erano di casa solo tra i comunisti per le cariche parlamentari, dove vigeva ( per i peones, s’intende, non per i membri dell’oligarchia nobilitati con incarichi di partito) la regola dei due mandati che aveva un suo doppio perché: il primo per consentire il turnover tra pari-grado e il secondo per far pagare allo Stato i costi del mantenimento dei funzionari di partito, visto che scattava un vitalizio che, una volta, con due mandati, poteva avere un suo perché. L’idea che un rappresentante del popolo, amato e voluto dal territorio, possa essere impedito dalla legge nella esperienza della rappresentanza, ha in sé qualcosa di storto: se a scegliere è il popolo, perché questa intromissione del limite? Soprattutto in una stagione, come quella che stiamo vivendo da trent’anni, in cui i parlamentari vengono non eletti dal popolo ma cooptati dai capi bastone e possono, teoricamente, mettere in fila decine di mandati , fino a che “morte non li separi” dallo scranno, la cosa appare alquanto distonica rispetto al destino di sindaci e presidenti di regione, votati dal popolo ma bloccati dal limite di legge.
Ma la Corte Costituzionale, con una sentenza n.60 del 2023, riferita ai mandati di sindaco, chiarisce che la previsione di un tale limite si presenta quale «punto di equilibrio tra il modello dell’elezione diretta dell’esecutivo e la concentrazione del potere in capo a una sola persona che ne deriva» situazione che può generare «effetti negativi anche sulla par condicio delle elezioni successive, suscettibili di essere alterate da rendite di posizione». Anche se destinato solo ai sindaci, questo ragionamento è riferibile anche ai “governatori” che, peraltro, in base alla legge dello Stato ( L. 2 luglio 2004, n. 165) sono obbligati a lasciare dopo due giri ( le regioni disciplinano con legge i casi di ineleggibilità nei limiti dei seguenti principi fondamentali: […]f) previsione della non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto).
Lasciamo da parte per un momento le diatribe giuridiche, interessanti per lo studioso, e trasciniamoci verso la terra- un po’ desolata- della politica. Che succederà per i sette presidenti di regione che hanno alle spalle già i due mandati, dal pirotecnico De Luca, capace di trascinare interi popoli a fare la marcetta su Roma, al non meno esuberante Emiliano e al “past-competitor” Bonaccini, per restare nel recinto Pd, ma poi anche Zaia, Toti, Fontana e Fedriga, gli ultimi due appena riconfermati, forzitalioti ( o giù di lì) e leghisti? Notare bene: non si scorge all’orizzonte nessun fratello o sorella d’Italia, circostanza non irrilevante per ciò che si dirà più avanti.
Com’è noto la Lega ha fatto i suoi emendamenti per far saltare il limite ai mandati regionali e la Schlein ha aperto una finestra di dialogo, sospinta dai suoi governatori. Che potrà accadere? La presidente del Consiglio non ha alcun interesse ad assecondare il perpetuarsi dello status dei candidati leghisti e forzisti nelle regioni controllate dalla destra, né a porgere una mano alla segretaria del Pd per aiutarla a levarsi qualche impiccio.
Dunque ha l’interesse a tener duro e a non lasciare spiragli. La reazione violenta della Lega con la crisi della legislatura? Non ci pare alle viste: ci guadagnerebbe solo Giorgia Meloni. Dunque ci punge vaghezza che tertium non datur. A meno che non fosse da scambiare qualche importante gesto politico tra i sodali della coalizione di governo. Quale? Una docilità assoluta- oggi non scontata- sulla storia del premierato. Sempre che la leader di Fratelli d’Italia lo voglia veramente.
Se fosse solo un arma tattica allora ci dispiace per i governatori in ansia: non c’è trippa per gatti.
Pino Pisicchio
(Formiche, 20 Febbraio, 2024)