Nomine: appartenenza, marketing e (forse) un pizzico di Confucio
- 07 Marzo 2023
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Esplode sui giornali col solito furore che spande lingue di fuoco dappertutto, l’esercizio triennale del totonomine.
Come spiegano i centri studi blasonati (particolarmente attivo il CoMar, che, ci perdonino i bravi ricercatori, sembra un acronimo tirato su alla svelta per questioni di genere e per contrastare l’egemonia del ComPar), in questa primavera sbocceranno 610 nuovi fiori sulle poltrone dei CdA di 105 società controllate o partecipate dallo Stato, che sviluppano un’economia pari a 190 miliardi di euro, dando lavoro a poco meno di 300 mila persone.
Insomma: se dobbiamo coniugare “potere di governo” con qualche cosa di senso, è di questo che dobbiamo parlare. Almeno nell’immaginario della politica. L’idea da sempre è che il consenso si mantenga ed anzi si moltiplichi così, mettendo a capo di Eni, Enel, Leonardo, Poste, eccetera, uomini fidati dei partiti al comando che, nell’esercizio dei doveri di amministrazione, non dimentichino i doveri verso i “danti causa”, e cioè chi li ha nominati.
È una procedura antica, intendiamoci, non l’ha inventata la Meloni, cui hanno attinto tutti, dall’alba della democrazia repubblicana. E, a non voler fare gli schizzinosi farisei, ci sta pure: se le nomine sono governative, il governo le fa. Certo, si possono adottare metodi diversi dove competenza e merito, in qualche modo, riescano a trovare un pertugio per infilarsi. Il mitico direttore generale della Rai Bernabei, democristiano irpino, usava un sistema passato alla storia per le assunzioni in azienda.
Poniamo che ci fossero 4 giornalisti da mandare a coprire ruoli nei tiggì: due andavano alla maggioranza, uno all’opposizione e il quarto Bernabei lo assumeva non perché fosse lottizzato ma perché era bravo. Per non fare figure anche i partiti cercavano di mantenere una certa dignità nella scelta del raccomandato e così la Rai si guadagnò la reputazione - meritata - di migliore tv di stato del mondo. Primato perduto, ovviamente, ormai da qualche decennio.
Tuttavia non il metodo Bernabei, fatto di un mix di appartenenza e qualità, sembra sopravvissuto agli insulti della Storia, ma quello, altrettanto democristiano, del manuale Cencelli, il cui mitico algoritmo proporzionale (tanto pesi tanto ti porti a casa), viene adottato, con diseguale consapevolezza, ai giorni nostri. Qui l’appartenenza la fa da padrona. Competenza e merito così e così.
Sarebbe interessante, tuttavia, se i ricercatori impegnati in questo approfondimento sulle nomine, si applicassero a capire le ricorrenze di certi nomi e le inossidabilità di alcuni supermanager, più veloci a cambiare casacca politica di Clark Kent quando le urgenze lo portano a vestire i panni di Superman. Oggi il nero si addice, come una volta il rosso e prima ancora il blu. E c’è chi i colori li indossa disinvoltamente come underwear, sotto un elegante completo executive.
D’altro canto la Presidente, dopo il caso di quel tal Anastasio e della lettera copiata dal discorso di Mussolini alla Camera in occasione del delitto Matteotti, dovrà fare molta attenzione ad attingere dalla fonte dei fedelissimi della prim’ora: all’epoca era la leader di un piccolo partito (4%) d’opposizione, antagonista e minoritario. Oggi è il più grande partito italiano, di governo e maggioritario.
E poi, diciamola tutta: siamo poi così convinti che la massa dei consensi elettorali la muovono le aziende di Stato? Proprio il risultato della Meloni ha confermato che ormai quello che sposta il voto è solo un “sentiment”, un’emozione dell’ultimo giro. E del resto come può non essere così se il voto di appartenenza, quello ideologico e identitario, non esiste più? Forse, allora, la presidente può farsi protagonista di una nuova stagione, capace di valorizzare il merito e la competenza. Metta a concorso...